Estratto dell’intervista di Antonio Anastasi per il Quotidiano del Sud
NON crede che Totò Riina abbia lasciato un “archivio” e ritiene che Cosa nostra sia stata ormai “svelata”. Ce l’ha con l’ “antimafia dei salotti” e si sente isolato da pezzi di Stato che si “servono” dello Stato anziché servirlo. Ha una venerazione per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, al quale fa “onore” che non sia stato nominato procuratore nazionale antimafia, perché accadde anche a Falcone e le analogie si intrecciano e si confondono. Con lui ci saranno uno sparuto gruppo di «carabinieri di allora», quelli della squadra che capeggiava, e i familiari del capitano Mario D’Aleo, ucciso su mandato di Salvatore Biondino, che era pressoché sconosciuto agli inquirenti quando venne arrestato insieme a Riina ma che si sarebbe poi rivelato come uno dei capimafia più pericolosi di Palermo.
Quando parla di antimafia dei salotti a chi e a cosa si riferisce?
«A chi minimizza il ruolo di Cosa nostra nella stagione delle stragi. Non è una polemica, sono felice di stare insieme a carabinieri di basso grado e al fratello del capitano Mario D’Aleo ucciso su ordine di Riina da Salvatore Biondino. […]
La mattina del 15 gennaio 1993, insieme a tre suoi uomini lei si lanciò sulla vettura su cui viaggiava Riina, nome in codice Sbirulino. Arrestando Riina, ha guardato in faccia la ferocia. Lei lo ha definito “un vigliacco”. Nel suo libro ha scritto che negli occhi aveva il terrore e che questo le dava fastidio. Può spiegare perché?
«Tremava, aveva paura di morire, eppure ha fatto uccidere e ucciso centinaia di persone, mi è sembrato strano. I prigionieri si rispettano, ma è stata una sensazione sgradevole, diceva “chi siete, mi sento male…”. […]
Perché il nome Ultimo e cosa significa per un servitore dello Stato?
«Perché sono cresciuto in un mondo di primi, dove si fa a gara ad emergere, ad essere più belli e più bravi, ad essere premiati e questo mi dava fastidio, specie quando questi comportamenti li ho notati nell’Arma dei carabinieri, un lavoro che bisogna fare per donarsi agli altri. Così quando ho scelto il nome di battaglia, secondo quello che era il volere del generale Dalla Chiesa, volevo far vedere che non competevo con gli altri per arrivare primo ma lavorare per il bene comune. Ridevano. […]
Ha mai avuto paura?
«Ho paura tutti i giorni, anche di fare questa intervista, di non essere all’altezza delle domande che vengono poste. Ma l’amore per gli umili, gli inermi e gli indifesi è più forte […]
Cosa significa fare il proprio dovere per chi, come lei, come Falcone, con cui ha collaborato, come Gratteri oggi, rischia l’isolamento da parte di quello Stato che ha provato a difendere?
«Per quelli come me, come Gratteri o Woodcock, combattere per gli altri è un grande privilegio, è la cosa più bella che c’è combattere per lo Stato fatto dalle persone umili, semplici, abbandonate. L’isolamento c’è, è chiaro, c’era anche per il generale Dalla Chiesa oggi celebrato da chi lo ha abbandonato così come Falcone era celebrato da chi lo delegittimava. Questi funzionari sfruttatori e parassiti non sono lo Stato, perché si servono dello Stato per fini personali, vanno combattuti con l’esempio, […]
Nel suo libro ha raccontato di avere detto a Riina, al momento dell’arresto, che era prigioniero dell’Arma e che non doveva parlare. Trent’anni dopo, col senno di poi, difenderebbe la scelta – peraltro finita al centro di una vicenda giudiziaria nella quale è stato scagionato – di non eseguire subito la perquisizione nel suo covo, che venne “ripulito” di ogni traccia, forse di documenti riservati, perché passarono 18 giorni?
«Non gli ho detto che non doveva parlare, ma che gli spettava una sigaretta e un bicchiere d’acqua perché prigioniero. Trent’anni dopo dico che non era nel mio potere e nella mia responsabilità fare o non fare la perquisizione ma esclusivamente della Procura di Palermo. Ho fatto una proposta, come linea strategica secondo me sarebbe stato meglio seguire i fratelli Sansone anziché fare la perquisizione, loro hanno accettato, poi ci hanno ripensato dieci giorni dopo e hanno impedito di seguire i fratelli Sansone e quindi di annientare l’intera Cosa nostra. Tanto è vero che nel 2013 il Capitano Ultimo insieme ad altri carabinieri indaga su altri mafiosi e scopre che il figlio di quel Sansone a cui era intestata la casa in cui si nascondeva Riina è fidanzato ufficialmente con una nipote di Matteo Messina Denaro.[…]
La sentenza dice altro, ma restano ombre sulla cattura che alcuni autorevoli osservatori definiscono misteriosa. Come giudica la tesi secondo cui Riina sarebbe stato venduto dai boss che volevano la fine della strategia stragista?
«Ho raccontato come sono andati i fatti, non mi frega di emergere o essere famoso o interessante, ci sono tanti pagliacci che dicono cose false. Ci sono dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, ormai morto, ma confermate da altri pentiti, che diceva che quando Cosa nostra aveva bisogno di mettere le cose a posto con la Procura di Palermo si rivolgeva al dottor Di Miceli. Purtroppo ad oggi non abbiamo saputo chi sono questi funzionari o magistrati a cui si rivolgeva Di Miceli. Queste sono le cose gravi su cui bisogna dare risposte. Io ho detto come sono andati i fatti. […]