La Corte di Cassazione arriva a tracciare un distinguo in tema di diffamazione a mezzo social.
Comportamenti social e repressione diffamazione
Con una recente sentenza, la Suprema Corte, ha segnato un distinguo nel tema dei reati online, sulla diffamazione in particolare, cogliendo le sfumature che interessano due social della medesima “casa”: Meta e whatsapp.
Il ruolo di Facebook, in realtà, è stato affrontato più volte dagli ermellini, anche (e ovviamente) in funzione dei suoi 20 anni di esercizio.
La novità viene invece rappresentata dai servizi di messaggistica, in cui whatsapp ha ruolo principe, data la sua rapida diffusione e facilità di uso
Quindo, l’evoluzione tecnologica spinge la giurisprudenza a ripensare, ad adattarsi, continuamente, proprio come nel caso di specie.
infatti, Facebook viene considerato un luogo virtuale, ideale, dove il messaggio veicolato raggiunge una platea potenzialmente indeterminata. Whatsapp, invece, anche a fronte di un gruppo esteso, quindi con molti profili li associati, ha un appannaggio di riservatezza maggiore, dato proprio dalla circoscrevibilità (almeno iniziale) e quindi fa vendere meno quella pubblicità incontrollata.
La viralità iniziale, quindi, giustifica l’aggravante della pubblicità.
Ovviamente, dato argomento realmente liquido, appare poco improbabile il non ritornare sul punto in futuro
D’altronde è la cronaca a consegnare, quasi quotidianamente, foto e video inizialmente condivisi su gruppi ristretti e poi diventati virali con un semplice inoltro al di fuori di esso.
Per assurdo è ancora una volta la tecnologia ad anticipare l’evoluzione del diritto, si pensi alla funzione modifica del testo nella chat di whatsapp (entro 15 minuti della sua redazione), della cancellazione di quanto scritto (anche verso tutti i componenti di un gruppo), invio di materiale multimediale con opzione di una sola visualizzazione, limitazioni di screenshot.