La privazione della libertà giornalistica in Turchia, di Cristina Di Silvio

La situazione della libertà giornalistica in Turchia rappresenta un caso esemplare di regressione democratica, in cui la stampa è stata deliberatamente ridotta al silenzio per consolidare il potere politico. Tuttavia, il coraggio e la resilienza di molti professionisti del settore dimostrano che il giornalismo, anche se ferito, continua a esistere come baluardo di verità e resistenza.

Turchia, un caso emblematico di repressione sistemica

Turchia

La Turchia, pur essendo formalmente una repubblica democratica e laica, ha vissuto nella sua storia numerosi periodi di restrizione delle libertà civili, in particolare nei confronti della stampa. Tuttavia, il deterioramento più grave e sistematico della libertà giornalistica si è verificato durante e dopo la lunga leadership di Recep Tayyip Erdoğan, soprattutto a partire dal tentato colpo di stato del 15 luglio 2016.

Quell’evento ha segnato un punto di non ritorno: il governo ha imposto lo stato d’emergenza, giustificandolo con la necessità di contrastare il terrorismo e le forze golpiste. Nei fatti, però, la repressione ha colpito duramente oppositori politici, accademici, magistrati e giornalisti.

La principale arma utilizzata dal governo per colpire i giornalisti è il sistema giudiziario, manipolato per criminalizzare il dissenso. Tra le leggi più abusate vi sono:

  1. Articolo 301 del Codice Penale: punisce chi “insulta la Turchia, la nazione turca o le istituzioni dello Stato”.
  2. Leggi antiterrorismo: usate in modo estensivo per accusare i giornalisti di “sostegno a organizzazioni terroristiche”, anche solo per aver dato voce a gruppi di opposizione o pubblicato inchieste scomode.
  3. Legge sulla censura digitale (2020): ha rafforzato il controllo dello Stato sulle piattaforme online, imponendo la rimozione di contenuti considerati “illegali” entro 24 ore.

Queste leggi creano un quadro normativo volutamente vago e repressivo, che consente arresti arbitrari, lunghe detenzioni preventive e processi-farsa.

Secondo i dati di Reporters Sans Frontières e del Committee to Protect Journalists:

  1. Nel 2020, la Turchia era il paese con il maggior numero di giornalisti incarcerati al mondo.
  2. Più di 150 media sono stati chiusi dopo il 2016, tra cui agenzie di stampa curde, giornali laici, e TV critiche.• Centinaia di giornalisti sono stati costretti all’esilio o hanno perso il lavoro.

Tra i casi simbolo troviamo:

  1. Ahmet Altan, scrittore e giornalista arrestato nel 2016, liberato nel 2021 dopo anni di pressioni internazionali;
  2. Nedim Şener e Ahmet Şık, accusati di “sovversione” solo per aver scritto libri inchiesta.

Il controllo diretto e indiretto dei media da parte del governo è un altro elemento centrale. Gran parte delle principali testate giornalistiche e reti televisive turche è in mano a conglomerati industriali legati all’AKP, il partito di Erdoğan.

L’informazione è dunque filtrata, orientata e strumentalizzata per rafforzare il potere. I giornalisti sono spesso costretti a scegliere tra la complicità e il silenzio, o la persecuzione.

Nel frattempo, l’autocensura si è radicata profondamente anche tra chi non è esplicitamente allineato col potere, per timore di licenziamenti, denunce o ritorsioni personali. Le istituzioni europee, l’ONU e diverse ONG hanno condannato più volte la deriva autoritaria della Turchia. Tuttavia, le relazioni geopolitiche complesse, come la gestione dei rifugiati siriani o gli interessi economici e militari, hanno spesso portato l’Unione Europea e la NATO a evitare sanzioni reali o pressioni efficaci.

In pratica, la difesa della libertà di stampa è rimasta spesso nelle mani delle ONG, delle comunità accademiche e della società civile, dentro e fuori la Turchia.

Nonostante tutto, il giornalismo indipendente non è scomparso. Piattaforme digitali, blog, radio clandestine e testate online come Bianet, Duvar o Ahval continuano a fare informazione critica, spesso con il supporto della diaspora turca in Europa.

Inoltre, le nuove generazioni di giornalisti formano reti solidali, partecipano a corsi internazionali e si mobilitano per una stampa libera, pluralista e professionale, anche in condizioni difficili.

Cristina Di Silvio, esperta rel. Internazionali.