Di Silvia Mancinelli per Adnkronos
Sono passati 20 anni dall’attentato di Nassiriya e i parenti delle vittime attendono ancora “il riconoscimento del loro sacrificio con una medaglia al valor militare alla memoria”.
A manifestare all’Adnkronos la “delusione e l’amarezza” per un “atto eroico” ad oggi non ancora riconosciuto è Annamaria Zollo, vedova del Sottotenente Alfonso Trincone morto nell’attentato di Nassiriya il 12 novembre 2003 insieme ad altri 11 carabinieri, a 5 militari dell’Esercito e a 2 civili.
“Mio marito aveva 44 anni. Lo stavo aspettando a casa con i nostri tre figli di 6, 12 e 17 anni, sarebbe tornato l’indomani. Il suo baule era già stato imbarcato. Lui si trovava a quasi 5mila chilometri da noi, nel piazzale della base.
Era uscito con Enzo Fregosi, morto anche lui, per conoscere un aiuto regista che era lì per girare un documentario. Quando si sono sentiti i primi spari, gli ha indicato dove mettersi al riparo mentre lui e Fregosi sono corsi verso l’entrata in aiuto dei colleghi.
Se non è questo un atto eroico, allora qual è?”. “Noi familiari siamo molto amareggiati e delusi dalle Istituzioni e dai vertici militari perché ci aspettavamo che finalmente l’atto eroico compiuto dai nostri militari venisse riconosciuto. Erano tutti consapevoli che nell’imminenza ci sarebbe stato un attentato, c’erano i warning dei servizi segreti, si parlava perfino della presenza di volantini che annunciavano il giorno del terrore, invitando la popolazione a stare a casa, a non mandare i bambini a scuola.
Non solo – continua Annamaria – uno degli organizzatori dell’attentato, una volta interrogato, ha poi ammesso l’inaspettata facilità avuta nel fare irruzione in caserma con la macchina, grazie all’assenza di serpentine e qualsivoglia altre difese. Mio marito e gli altri militari dovevano stare tra la gente e per la gente, ma non per questo dovevano morire”.
“Qui c’é una grave ingiustizia che va sanata, facciamo appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Ministro della Difesa perché sia riconosciuto l’atto eroico. I nostri militari erano lì pur sapendo cosa stava succedendo, sono rimasti a rischio della propria vita, lottavano contro il terrorismo per tutti noi.
E oggi il desiderio più grande mio e degli altri familiari, prima di morire, è vedere i nostri parenti onorati. Vogliamo cancellare l’amarezza – ribadisce la vedova di Trincone – i pugni nello stomaco presi quando puntualmente ci venivano negati i riconoscimenti chiesti. Quest’anno abbiamo deciso di ricorrere alle vie legali per formalizzare la richiesta del riconoscimento della medaglia.
E vediamo se, a distanza di 20 anni, la loro morte e la fine dei nostri sogni, potrà almeno esser ripagata con il riconoscimento al valor militare alla memoria”.
Le parole di Moris Carrisi, fratello di Alessandro, morto a Nassiriya
“Sono passati 20 anni tra tribunali civili e militari, richieste e istanze per riconoscere l’atto eroico. Ma qui ‘eroi’ sono solo a parole”. E’ quanto racconta all’Adnkronos Moris Carrisi, fratello di Alessandro tra i cinque militari dell’Esercito morti insieme a 12 carabinieri e a due civili nell’attentato di Nassiriya il 12 novembre 2003.
“Fanno cerimonie in tutta Italia, ho ricevuto dai 10 ai 12 inviti – spiega – E ancora siamo in attesa che qualcuno ci dica realmente perché non spetta loro la medaglia al valor civile. I ragazzi hanno risposto al fuoco, cercato di dare sostegno alle sentinelle che erano alla porta.
Questa medaglia a noi familiari non serve, la mia famiglia ormai è decimata, mio padre se n’è andato con la tristezza nel cuore dopo i tanti dinieghi alle domande e alle istanze presentate. Non è che la medaglia al valor militare noi familiari ce la mettiamo al petto: è un riconoscimento a questi ragazzi andati in una terra martoriata per portare la pace”. “Un eroe non si riconosce solo con una cerimonia – incalza Carrisi – La popolazione considera eroi i nostri caduti a Nassiriya, forse un po’ meno le autorità che dovrebbero concedere queste medaglie”.
Venti anni e un ricordo sempre lucido, quello di Alessandro. “Mio fratello aveva 23 anni – racconta Moris – lo avevo sentito la sera prima, si era fatto il giro di tutte le telefonate, ha parlato con me, con mamma, con la sua fidanzata e infine con mia moglie. Era lì da un mese, lui era di scorta, sapeva a cosa andava incontro, eppure non ha mai detto nulla. Oggi sarebbe giusto che ci dicano per quale motivo non viene concessa la medaglia d’oro ai nostri caduti.
Continuiamo ad avere fiducia nella giustizia, speriamo si risveglino le coscienze, che qualcuno si vada a rivedere il funerale, le scene di quando sono rientrati, di come è stata squarciata la base, del cratere che ha fatto la deflagrazione. Nassiriya è sempre storia, con o senza medaglia”.
Il papà di Silvio Olla “mio figlio aveva un presentimento”
“Sono 20 anni che ho un groppo alla gola, mio figlio aveva 32 anni, era rientrato dal Kosovo da 4 mesi. Quando si è prospettata la partenza in Iraq, lui non si tirò indietro.
Mi disse ‘non sono un coniglio, se partono i miei reparti devo partire anche io, ed è andato. Ma lì è molto tosta, e lui sembrava quasi percepisse qualcosa, come un presentimento. Non aveva mai pianto prima di partire, ma quella volta, mentre la fidanzata lo stava portando in aeroporto, richiamò a casa dicendo ‘Vi voglio bene’.
Questo ricordo mi fa venire ancora i brividi”. E’ il racconto all’Adnkronos di Ruggero Olla, papà di Silvio, tra i cinque militari dell’Esercito morti insieme a 12 carabinieri e a due civili nell’attentato di Nassiriya il 12 novembre 2003. “A mio figlio non piaceva stare dietro una scrivania, era abituato alla vita operativa. Ma in quella terra martoriata lui è morto, e mia moglie con lui, dopo 4 anni di agonia.
Col risultato che lì la situazione è sempre un inferno, se possibile perfino peggiorata”, conclude.